6.2.10

V Domenica tempo ordinario - ANNO C

Domenica 7 febbraio 2010

Is 6,1-2.3-8 Eccomi, manda me!
Salmo 137 Rit.: Cantiamo al Signore, grande è la sua gloria
1 Cor 15,1-11 Così predichiamo e così avete creduto
Lc 5,1-11 Lasciarono tutto e lo seguirono


1. Seguire Gesù
Il Vangelo continua a proporci, in queste prime domeniche dell'anno liturgico, il tema della sequela di Gesù, mostrandoci quale sia il modo giusto per accoglierlo e seguirlo.
In questa V domenica ci viene presentata la figura di coloro che, non a caso, diventeranno i discepoli di Gesù. La storia della loro chiamata, di Pietro in particolare, appare in forte antitesi con l'atteggiamento dei nazareni, nell'episodio della scorsa domenica.
Pietro è rimasto fuori, tutta la notte, e non ha pescato nulla. Forse in questi tempi di crisi ci è più facile immaginare la frustrazione, la preoccupazione, la tristezza: pensiamo a chi apre i negozi e per tutto il giorno non vede un cliente, o alle fabbriche dove non arrivano ordini ...
Egli sta riassettando le reti: possiamo anche qui immaginare la stanchezza, che accompagna l'ultima operazione prima di potersi finalmente riposare, e magari anche la voglia di lasciarsi alle spalle una giornata nera per pensare e sperare in quella successiva.

2. Una piccola grande richiesta
In questo contesto si avvicina Gesù, con la richiesta di usare per un po' la barca, richesta che, in assoluto, è forse modesta, ma che, rivolta in quel momento, si presenta come faticosissima, sia fisicamente che psicologicamente.
Quanti di noi, in quel momento, avrebbero acconsentito? O non ci si sarebbe sentiti in diritto, anche davanti a Dio, di "pensare un po' a me stesso, che già ho avuto una giornata dura?"
Pietro, invece, generosamente acconsente.
Vediamo già la fede: si mette a servizio di Gesù, senza sperarne nulla. Quanta differenza coi Nazareni, che invece ritenevano di avere dei diritti su di Lui!

3. La gloria di Dio
E Gesù, da parte sua, decide di fargli il miracolo.
Esso, ancora, presuppone la fede; la frase di Pietro ci fa comprendere che il primo fra gli Apostoli non si è limitato a "dare un passaggio" al Maestro, ma ha anche ascoltato le sue parole, e si è reso conto che sono diverse da quelle di tutti gli altri:

«Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti»
Il miracolo è grande, enorme, ma soprattutto viene accolto nel suo giusto senso. Se i Nazareni pensavano solo al vantaggio che potevano trarne, per se stessi, l'atteggiamento di fede porta Pietro a disinteressarsi dell'effetto del miracolo (tanto è vero che alla fine lascia tutto, nave, reti e pescato), ed a focalizzarsi sulla potenza di Colui che lo opera. Il miracolo è strumento per rendersi conto della potenza di Gesù: la conseguenza di questa contemplazione è il riconoscimento della propria miseria ed indegnità, ed anche lo stupore infinito per l'intervento divino proprio in tale miseria.
La Prima Lettura bene esprime questo movimento: alla contemplazione della gloria infinita di Dio, fa' subito riscontro la lamentazione del profeta ed, al tempo stesso, il suo stupore.
«Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti».
Davanti al pentimento ed alla confessione, c'è l'intervento di Dio, che, con una sua azione o una sua Parola ("Non temere, ti farò pescatore di uomini") rende l'uomo degno non solo di stare davanti a lui, ma addirittura di svolgere una missione per il Regno di Dio.

4. Non a noi, ma al tuo Nome dà gloria
Il Salmo esprime molto bene il senso della missione, che è fatta da un lato sempre chiedendo l'aiuto di Dio e riportandosi all'esperienza di amore con lui; dall'altro nella piena convinzione di quanto si sta facendo, perché questa è opera del Signore, ed"il Signore farà tutto per me".
Questo equilibrio tra la propria personale indegnità e la forza della propria missione, perché essa è di Dio, ed è lui ad avere reso degno l'annunciatore, a noi può apparire contrastante.
San Paolo, nella seconda lettura, ce ne parla con grandissima profondità e, al tempo stesso, con la più lucida semplicità.
Si dice "indegno di essere chiamato Apostolo", ma invita a non discostarsi, in nulla, dall'annuncio che egli ha portato. Parla di sé come un "aborto", ma è ben conscio di quello che è, ora, "per grazia di Dio".
Egli ha faticato più di tutti gli altri, ma subito ci dice che, in realtà, è la grazia ad aver lavorato in lui.
Solo il Signore può dare la grazia di essere umili e, al tempo stesso, sicuri e coraggiosi nell'annuncio: da lui chediamo questo dono.

2.2.10

Festa della Presentazione del Signore

Martedì 2 Febbraio 2010

BENEDIZIONE DELLE CANDELE E PROCESSIONE
Il Signore nostro Dio verrà con potenza, e illuminerà il suo popolo. Alleluia.
Fratelli carissimi, sono passati quaranta giorni dalla solennità del Natale.
Anche oggi la Chiesa è in festa, celebrando il giorno in cui Maria e Giuseppe presentarono Gesù al tempio.
Con quel rito il Signore si assoggettava alle prescrizioni della legge antica, ma in realtà veniva incontro al suo popolo, che l’attendeva nella fede.
Guidati dallo Spirito Santo, vennero nel tempio i santi vegliardi Simeone e Anna; illuminati dallo stesso Spirito riconobbero il Signore e pieni di gioia gli resero testimonianza.
Anche noi qui riuniti dallo Spirito Santo andiamo incontro al Cristo nella casa di Dio, dove lo troveremo e lo riconosceremo nello spezzare il pane, nell’attesa che egli venga e si manifesti nella sua gloria.

Dopo l’esortazione il sacerdote benedice le candele, dicendo a mani giunte la seguente orazione:


Preghiamo. O Dio, fonte e principio di ogni luce, che oggi hai rivelato al santo vecchio Simeone il Cristo, vera luce di tutte le genti, benedici + questi ceri e ascolta le preghiere del tuo popolo, che viene incontro a te con questi segni luminosi e con inni di lode; guidalo sulla via del bene, perché giunga alla luce che non ha fine.
Per Cristo nostro Signore.

Ml. 3,1-4 Entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate
Salmo 23 Rit. Vieni, Signore, nel suo tempio santo
Eb 2,14-18 Doveva rendersi in tutto simile ai fratelli
Lc 2,22-40 I miei occhi hanno visto la tua salvezza

Un breve pensiero, anche se con un po' di ritardo, per la importante festa della Presentazione del Signore.

Il Vangelo presenta alcuni temi forti che si intrecciano e che accenniamo.
Anzitutto, la presentazione al tempio di Gesù, che è il riscatto dei primogeniti, richesto dalla legge di Mosè, a ricordare essenzialmente la Pasqua. Dio si è acquistato un popolo, ed il popolo è suo possesso. Per questo, ogni primogenito appartiene al Signore, e deve essere riscattato mediante un sacrificio.
Certo, colpisce che Gesù stesso sia riscattato, lui che dirà "Devo occuparmi delle cose del Padre mio".
In realtà, la festa assume un altro significato: l'Evangelista ci fa comprendere che Gesù è Dio, che entra e prende possesso del tempio.
C'è un contesto di grande gloria, di glorificazione, espresso dai due profeti; emerge soprattutto che, mentre i genitori di Gesù si recano al tempio per compiere ciò che, ordinariamente, la Legge richiedeva per tutti, attorno al bambino accadono eventi straordinari, che ce lo presentano come diverso da tutti gli altri.
Il versetto del Salmo chiaramente indirizza a questa lettura.
Pure la prima lettura è fortemente caratterizzata in tal senso; essa pare aggiungere un ulteriore dato, un apice interpretativo.La venuta del Signore nel tempio non è solo importante in se stessa, come quando la sua presenza era entrata nell'Arca (Es. 40,34-35), poi nel tempio appena costruito (2 Cr. 7,1-2), e quando si era trasferita con il popolo in esilio (Ez. 1), per poi tornare nel nuovo tempio, in un contesto già più "interiore" (Ne. 8).
Nella profezia essa è indicata come momento messianico-escatologico, il tempo della venuta definitiva e della purificazione di tutto il popolo.
E' l'incontro "che voi sospirate" con Dio.
Proprio l'attesa, paziente e fiduciosa, è l'altro aspetto che colpisce molto nelle letture.
Simeone e Anna sono vecchi: già questo dà l'idea di una lunga attesa in una grande fedeltà.
Essi sono ancora attenti, non si sono stancati di aspettare nella preghiera. Tuttavia non è un attendere astratto ed ideologico, non c'è un aspettare qualcosa come modo per vivere meglio. C'è la speranza, cioè la concreta certezza di uno specifico evento:

Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore.
Anna ha ottantaquattro anni, cioè dodici volte sette, dopo aver vissuto sette Anni col marito. Forse rappresenta l'umanità (sette è il numero della completezza temporale perché richiama la settimana della Creazione, ma anche delle nazioni pagane - cfr. Mc 8,18-21 - mentre dodici è il numero di Israele) che ha vissuto con Dio solo un breve periodo di nozze ed ora vive in perenne vedovanza.
L'attesa è finita, Dio si è incarnato in un bambino.
Egli è luce delle nazioni: tutto il rito richiama alla realtà di questa manifestazione.
Egli è la gloria di Israele: si compie la missione del popolo eletto, che ha preparato e fatto vivere, dal suo seno, il Messia Dio incarnato per tutti i popoli.
E l'incarnazione, con l'aiuto della Seconda Lettura, ci si offre come nuova dimensione della venuta di Dio nel suo tempio: il tempio è il corpo, quel corpo dell'uomo che, assunto dal Figlio di Dio, diventa stabilmente, nella nuova realtà, il luogo della dimora di Dio.
Anche noi, come il vecchio Simeone, accogliamo fra le braccia questo bambino, ma soprattutto accogliamolo nel cuore, perché il nostro corpo diventi tempio dello Spirito.

29.1.10

IV Domenica tempo ordinario - ANNO C

Domenica 31 Gennaio 2010


Ger 1,4-5.17-19 Ti ho stabilito profeta delle nazioni
Dal Salmo 70 Rit. La mia bocca, Signore, racconterà la tua salvezza
1 Cor 12,31-13,13 Rimangono la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di tutte è la carità
Lc 4,21-30 Gesù come Elia ed Eliseo è mandato non per i soli Giudei


1. Un'accoglienza trionfale
Il brano evangelico prosegue il racconto, iniziato domenica scorsa, di Gesù nella sinagoga di Nazareth.
Si è colpiti dalla particolarità della descrizione di Luca, specie se confrontata con le versioni parallele di Matteo e Marco.
La reazione dei nazareni al discorso di Gesù sembrerebbe, infatti, molto positiva.
Già ci era stato detto che gli occhi di tutti erano fissi su di lui (vs. 20); si rileva, poi, come

Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?».
Anche quest'ultima domanda, che nei sinottici rappresenta il culmine dello scetticismo dei compatrioti, qui pare piuttosto essere formulata con stupita meraviglia.
A fronte di questa accoglienza, non certo oppositiva, Gesù assume un ruolo abbastanza "antipatico"; sembra quasi far di tutto per indurre, lui stesso, il rifiuto dei nazareni.
Diviene allora centrale cercare di comprendere le motivazioni di tale atteggiamento.


2. "Medico, cura te stesso!"
Non deve stupire anzitutto che, a fronte di parole che paiono indicare un determinato atteggiamento, il Vangelo ricolleghi un'interpretazione opposta.
Già Luca, nei primi capitoli, ci mostra come la risposta di Zaccaria e di Maria all'angelo Gabriele, sostanziate in parole pressoché identiche, nasconda atteggiamenti esattamente contrari: chiusura diffidente per il Sacerdote, generosità fiduciosa per la Madre del Signore.
Dio guarda al cuore dell'uomo, non all'atteggiamento esteriore; Gesù, poi, è colui che conosce il cuore di ciascuno, il che lo porta a non confidare troppo nelle dichiarazioni "facili" di fede in lui (cfr. Gv. 2,24-25).
A fronte degli entusiasmi dei compaesani, il Signore ne disvela la ragione profonda, manifesta apertamente ciò che di errato, per non dire di frainteso, v'è in tale superficiale euforia. 
Cosa attribuisce Gesù ai suoi ascoltatori?
«Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”».
L'esempio merita attenzione. Se il medico svolge una professione importante, salvando le vite altrui, quanto più deve prestare attenzione e dare il meglio di sè, dando fondo a tutte le sue conoscenze, quando si tratta di se stesso.
Il concetto, applicato a Gesù, potrebbe suonare in questo modo: "Se hai fatto tanti segni e prodigi per gli altri, quanti più ne dovrai fare adesso per noi, che siamo i tuoi.
L'essere tuoi compatrioti, tuoi parenti, l'averti visto nascere e crescere ci dà diritto ad attenderci da te cose ben più grandi che agli altri".
L'entusiasmo orgoglioso, quasi di bandiera, di un'appartenenza ideologica a Gesù, porta, al tempo stesso, ad attendersi da lui un trattamento privilegiato, una sorta di manipolazione o di diritto su Dio a vedere soddisfatte le proprie istanze.
Alla fine è tentare Dio: quanto somiglia quel proverbio alla tremenda frase della Passione: "Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso?" (Mt. 27,42).


3. La presenza di Dio nel suo popolo
Non così è da intendere il senso della della presenza e del dono di Dio in mezzo al suo popolo, di cui il profeta è segno immediato.
Essere i "suoi" comporta anzitutto il contrario: obbedienza e conversione; non è l'occasione per un diritto in più, ma per un'obbedienza in più.
Per questo un profeta, in patria non è accetto: richiama costantemente questa realtà.
Non a caso la Liturgia ci presenta, attraverso la prima lettura, la figura del profeta Geremia e la drammatica, conflittuale missione presso il suo popolo.
La critica principale che Geremia fa a Israele, infatti, è il ritenere la protezione di Dio su Gerusalemme (la "shalom", la pace)  un qualcosa di automatico, di dovuto, di eterno, pur nelle nequizie e nei tradimenti peggiori.
Sono proprio i "falsi" profeti che
"... dicono a coloro che disprezzano la parola del Signore:
Voi avrete la pace!
e a quanti seguono la caparbietà del loro cuore
dicono: Non vi coglierà la sventura" (Ger. 23,17)
Tali profezie sono duramente contestate da Geremia, perché legittimano e confermano l'atteggiamento errato del popolo: l'esito inevitabile sarà l'esilio in Babilonia, con cui Dio, fallito ogni richiamo, veramente abbandonerà il popolo, nello scandalo più totale ... anche sul piano teologico.
Il vero profeta, al contrario, predica l'obbedienza al piano di Dio e non è uno strumento per usare Dio a proprio vantaggio: per questo il suo destino, "fin dal grembo materno", è di vivere in perenne contrasto.


4. Doni gratuiti
E i segni straordinari, in quest'ottica di obbedienza, dove si collocano?
Gli esempi che fa Gesù sono assai significativi, proprio in questa logica: il segno pare lasciato a coloro che conoscono poco Dio, si ritengono o sono ritenuti lontani da lui, come Naaman il Siro e la vedova di Zarepta.
In questo modo il segno mostra la sua vera natura di dono di Dio, perché è percepito come gratuito ed immeritato, e perciò è privo del rischio di pretesa.
Sotto tale luce, si comprende la violenta reazione dei nazareni, che capiscono come Gesù gli stia chiedendo di mutare radicalmente il loro rapporto con Dio.
Non più l'orgoglio che se ne appropria, ma l'umiltà che lo serve.
La prospettiva diviene qui vertiginosa, perché ci apre uno squarcio sul mistero del rifiuto di Israele, popolo eletto, e su alcune delle sue possibili motivazioni.


5. "Non cerca il proprio interesse"
Il culmine del discorso viene offerto dalla seconda lettura, l'inno di san Paolo alla carità.
Nella nostra ottica è importantissimo il collegamento con il testo di Domenica scorsa.
Paolo sta dimostrando alla comunità cristiana che i doni, che ciascuno ha, sono in realtà di Dio, attraverso l'unico Spirito.
Ognuno deve utilizzare il proprio, per l'appunto, come dono: non per sé, ma per il bene di tutti, senza essere invidioso di quelli altrui, né viceversa ritenendosi superiore ad altre membra, apparentemente "meno dignitose".
Il carisma più grande di tutti, anzi, è proprio la carità, che non avrà mai fine.
Ecco l'antitesi dell'atteggiamento di possesso di Dio: la sottomissione, che significa accettare sì i suoi doni, ma senza gonfiarsi, senza vantarsi, senza invidiare, sperando tutto da Lui e dalla sua giustizia; non facendo del dono occasione di privilegio, ma anzi sopportando volentieri e non tenendo conto del male ricevuto.
Quale migliore attualizzazione del Vangelo?


6. La profezia finirà
Anzi, la stessa profezia, ad un certo punto, finirà; finiranno anche i doni. Quando Dio sarà tutto in tutti, quando vedremo faccia a faccia, rimarrà solamente la carità.
La carità non è quindi solamente il modo per comprendere ed usare al meglio i doni di Dio, ma si può forse dire il contrario: sono i doni di Dio che ci spingono ad imparare la carità, l'obiettivo finale di tutta l'esistenza.
Ci doni Dio di accogliere con questa umiltà la sua presenza, i suoi doni e la sua Parola, come dice il versetto allelujatico che accompagnava questo Vangelo prima della modifica del Lezionario:
"Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli" (Mt. 11,25)

27.1.10

Memoria

Riprendiamo dal testo di padre R. Scalfi, "I testimoni dell'Agnello", Ed. La Casa di Matriona - Russia Cristiana, 2000, per gentile concessione, alcune testimonianze di cristiani internati nei lager.
La croce di Cristo possa illuminare e sanare il mistero dell'iniquità di tutte le persecuzioni, specie dell'ultimo secolo.

Ad ognuno di noi è destinata una propria strada e perciò ognuno deve cantare lo stesso cantico di lode con una sua prpria melodia. Ognuno porta una croce sua propria. L'avvenire è avvolto nelle nebbie dell'ignoto. Mi preparo ad affrontarlo docile alla volontà dell'Altissimo, disposto ad amare Lui, le persone che mi sono care ed anche i miei nemici
(Un sacerdote cattolico)

Quando a metà Maggio del 1924 le monache ricevettero in prigione i dispacci con le condanne, non vollero leggerli, ma li consegnarono alla superiora, affinché fosse lei stessa a leggere a ciascuna la condanna, che ogni suora accettava come obbedienza monastica
(Dalle memorie delle domenicane russe di rito bizantino)

Lottare per i diritti dell'uomo è un sacro dovere per tutti. La cosa più importante nella vita è liberare il cuore e la mente dalla paura, perché cedere al male costituisce la più grave delle colpe
(Nijole Sadunaite, lituana, dichiarazione al processo)

25.1.10

Crisi e famiglia

Dalla lettera del Santo Padre al Presidente del Consiglio in occasione del G8 dell'Aquila: l'economia deve essere rifondata sulla base delle esigenze della famiglia, avendo al centro le esigenze occupazionali, per assicurare ai lavoratori ed alle lavoratrici la possibilità di educare dignitosamente i figli.

Agli illustri partecipanti all’incontro del G8, mi preme altresì ricordare che la misura dell’efficacia tecnica dei provvedimenti da adottare per uscire dalla crisi coincide con la misura della sua valenza etica.
Occorre cioè tener presenti le concrete esigenze umane e familiari: mi riferisco, ad esempio, all’effettiva creazione di posti di lavoro per tutti, che consentano ai lavoratori e alle lavoratrici di provvedere in maniera degna ai bisogni della famiglia, e di assolvere alla primaria responsabilità che hanno nell’educare i figli e nell’essere protagonisti nelle comunità di cui sono parte.
«Una società in cui questo diritto sia sistematicamente negato, - ebbe a scrivere Giovanni Paolo II - in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale» (Centesimus annus, 43; cfr. Id., Laborem excercens, 18).
E proprio a tale scopo, si impone l’urgenza di un equo sistema commerciale internazionale. (...)
E’ doveroso riformare l’architettura finanziaria internazionale per assicurare il coordinamento efficace delle politiche nazionali, evitando la speculazione creditizia e garantendo un’ampia disponibilità internazionale di credito pubblico e privato al servizio della produzione e del lavoro, specialmente nei Paesi e nelle regioni più disagiati.
(Dedicato a un amico che inizia oggi la grande avventura del lavoro)

20.1.10

III Domenica tempo ordinario - ANNO C

Domenica 24 Gennaio 2010



Neemia 8,2-4.5-6.8-10 Leggevano il libro della legge e ne spiegavano il senso
Salmo 18 Rit.: Le tue parole, Signore, sono spirito e vita
1 Corinti 12,12-30 Voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte
Lc 1,1-4; 4,14-21 Oggi si è compiuta questa Scrittura

1. Una Parola incarnata
Il Vangelo si apre con un annuncio, l'annuncio del Vangelo stesso, nel prosieguo del tema dell'inizio d'anno liturgico.
La traduzione italiana, purtroppo, non rende piena giustizia al testo. Il brano originale, al versetto terzo, più propriamente può essere reso così:
"E' parso bene anche a me, che ho fatto ricerche fin dall'inizio su tutto, accuratamente, di scrivertene con ordine"
Non è quindi che l'Evangelista compia le ricerche a seguito del diffondersi dei primi "resoconti ordinati" sugli accadimenti della salvezza, bensì tale diffusione suggerisce a Luca di scrivere il Vangelo, in quanto egli, fin dall'inizio, ha compiuto ricerche accurate.
Le ricerche cioè precedono la decisione di scrivere il Vangelo: possiamo immaginare che san Luca le abbia compiute per proprio conto, magari come espressione del proprio percorso di fede.
Esse non rimangono, però, fini a se stesse, ma l'Evangelista si sente ora chiamato a stenderle in modo ordinato, per l'utilità di tutti.
Ci si chiarisce, fin da subito, che il Vangelo è un messaggio "incarnato".
Necessita, infatti, della mediazione di persone che Dio ha specificamente incaricato all'annuncio verso tutta la comunità.

2. Comunità ministeriale
La prima lettura ce ne offre un chiaro esempio: il popolo ascolta la Parola, grazie a coloro che la proclamano; la comprende, e per questo è pieno di gioia (vs. 10), grazie ai leviti ed agli altri che la spiegano.
Addirittura, nei versetti quarto e settimo, omessi nella lettura liturgica del brano di Neemia, c'è l'elenco preciso, nome per nome, degli scribi e dei leviti che aiutano Esdra e Neemia a svolgere questo ministero di annuncio e spiegazione:
"Esdra, lo scriba, stava sopra un palco di legno, che era stato fatto apposta; accanto a lui stavano, a destra, Mattitia, Sema, Anania, Uria, Chilchia e Maaseia; a sinistra, Pedaia, Misael, Malchia, Casum, Casbaddana, Zaccaria e Mesullam" (Ne 8,4).
"Iesua, Bani, Serebia, Iamin, Accub, Sabbetai, Odia, Maaseia, Chelita, Azaria, Iozabad, Anan, Pelaia e gli altri Leviti spiegavano la legge al popolo, e tutti stavano in piedi al loro posto" (Ne 8,7 - trad. "nuova riveduta" su http://www.laparola.net/)
Molto significativo il richiamo al "posto" di ciascuno (nella versione che prendiamo a prestito dalla traduzione  protestante) che si collega direttamente alla seconda lettura, con il famoso esempio paolino del "corpo", ove ogni membro è al suo posto, per il suo ruolo e la propria funzione.
Ed è sempre Paolo a ricordare i ruoli che ciascuno si vede affidati da Dio, che caratterizzano la comunità, secondo una precisa gerarchia.
La comunità cristiana è un corpo ordinato ("ben compaginato e connesso" Ef. 4,16) nella fedeltà ai ministeri affidati da Dio.

3. L'annuncio ordinato del messaggio
Da tale corpo ordinato nasce pure un annuncio ordinato, come ribadito dall'inizio del Vangelo di Luca; del resto mettere ordine, mediante distinzioni e ruoli diversi, appare la prima caratteristica dell'azione creatrice di Dio (cfr. Gn 1,1ss).
Tale annuncio è razionale, riscontrabile, può essere quindi compreso dall'uomo, che ne è coinvolto e ne fa parte, come confermano le molte sottolineature della prima lettura sulla "comprensione" che il popolo ha del Libro (Ne 8,2.3.8.12.); così come la possibilità che a Teofilo, "amico di Dio" in greco, viene offerta di "rendersi conto della solidità dell'insegnamento ricevuto".
Il Concilio Vaticano II conferma la stretta relazione tra Parola, trasmissione e corpo ecclesiale, quando afferma nella Costituzione Dei Verbum al § 9:
"La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine. Infatti la sacra Scrittura e la parola di Dio in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio - affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli - ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; ne risulta così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l'una e l'altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza"
4. Il compimento
Il testo liturgico del Vangelo prosegue con il noto brano di Gesù nella sinagoga di Nazareth. Incentriamo l'attenzione su quanto solennemente Gesù afferma dopo aver letto il brano del profeta Isaia e con cui si conclude il testo:
«Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato»
In che senso la Scrittura ascoltata "si compie"?
Certo, Gesù, come il profeta, è colui che, ripieno dello Spirito, annuncia il messaggio di salvezza e di liberazione che viene da Dio. Ma questo sarebbe riduttivo; il vocabolo indica la pienezza della realizzazione.
Giunge a compimento, quindi, non solo nel senso che Gesù è un nuovo profeta, un nuovo Isaia, ma proprio per il fatto che quanto annunciato dal profeta come promessa, si realizza.
Gesù è la realizzazione del messaggio: è la liberazione per i prigionieri, la vista per i ciechi, la libertà per gli oppressi; è l'anno di grazia per il Signore, è il lieto annuncio per i poveri.
E', cioè, Egli stesso la Parola, che si attualizza perché Egli, incarnato, vive ed è presente, in mezzo agli uomini.

5. La Parola incarnata
Si comprende allora la descrizione enfatica della prima lettura, con il pianto e la gioia del popolo. Rappresenta l'effetto della presenza, vera e reale, di Dio - attraverso l'annuncio della Sua Parola - in mezzo agli uomini. Non si tratta di una semplice parola di gioia o di consolazione, è Parola presente, che costituisce gioia, crea pentimento e consolazione.
E' viva, come una persona, anzi è una Persona.

6. Corpo di Cristo
Rimane, però, un ultimo quesito.
Anche dopo aver chiarito che la presenza della Parola è la presenza di Gesù, vivo e vero, possiamo dire che vale quanto si diceva all'inizio, sulla necessaria presenza della comunità e dei suoi ministeri per giungere alla conoscenza del Cristo stesso?
La risposta non può che essere positiva, alla luce della seconda lettura. La metafora delle membra, infatti, ha senso perché "voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra".
La Chiesa è il corpo mistico di Cristo, è in essa che v'è la Sua presenza reale ed in essa si conosce Lui e la Sua rivelazione. Di converso la Chiesa, con il suo ordine e la sua struttura, ha senso perché è corpo di Cristo: Lui, Parola viva, ne è il Capo. 
Ci aiuta, in conclusione, ancora il Concilio, al § 8 della Lumen Gentium:

Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità, quale organismo visibile, attraverso il quale diffonde per tutti la verità e la grazia. Ma la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l'assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino.
Per una analogia che non è senza valore, quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, così in modo non dissimile l'organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo (cfr. Ef 4,16)

19.1.10

Povertà evangelica ed appartenenza ecclesiale

Dal sito della Santa Sede un estratto della catechesi del Papa all'udienza generale del 13 Gennaio. Benedetto XVI, nel ripercorrere la storia della Chiesa, ha trattato della nascita degli "ordini mendicanti" nel Medio Evo, francescani e domenicani.
Alcuni passaggi (titoletti nostri) sul sempre complesso rapporto tra fedeltà evangelica ed appartenenza ecclesiale, specie sul tema della povertà.
Il testo completo su http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100113_it.html

Un desiderio di autenticità
Una prima sfida era rappresentata dall’espansione di vari gruppi e movimenti di fedeli che, sebbene ispirati da un legittimo desiderio di autentica vita cristiana, si ponevano spesso al di fuori della comunione ecclesiale.
Erano in profonda opposizione alla Chiesa ricca e bella che si era sviluppata proprio con la fioritura del monachesimo.
In recenti Catechesi mi sono soffermato sulla comunità monastica di Cluny, che aveva sempre più attirato giovani e quindi forze vitali, come pure beni e ricchezze. Si era così sviluppata, logicamente, in un primo momento, una Chiesa ricca di proprietà e anche immobile.
Contro questa Chiesa si contrappose l'idea che Cristo venne in terra povero e che la vera Chiesa avrebbe dovuto essere proprio la Chiesa dei poveri; il desiderio di una vera autenticità cristiana si oppose così alla realtà della Chiesa empirica.

Pauperismo ed eresie
Si tratta dei cosiddetti movimenti pauperistici del Medioevo. Essi contestavano aspramente il modo di vivere dei sacerdoti e dei monaci del tempo, accusati di aver tradito il Vangelo e di non praticare la povertà come i primi cristiani, e questi movimenti contrapposero al ministero dei Vescovi una propria “gerarchia parallela”.
Inoltre, per giustificare le proprie scelte, diffusero dottrine incompatibili con la fede cattolica. Ad esempio, il movimento dei Catari o Albigesi ripropose antiche eresie, come la svalutazione e il disprezzo del mondo materiale – l’opposizione contro la ricchezza diventa velocemente opposizione contro la realtà materiale in quanto tale - la negazione della libera volontà, e poi il dualismo, l'esistenza di un secondo principio del male equiparato a Dio.
Questi movimenti ebbero successo, specie in Francia e in Italia, non solo per la solida organizzazione, ma anche perché denunciavano un disordine reale nella Chiesa, causato dal comportamento poco esemplare di vari esponenti del clero.

L'intima comunione con la Chiesa
I Francescani e i Domenicani, sulla scia dei loro Fondatori, mostrarono, invece, che era possibile vivere la povertà evangelica, la verità del Vangelo come tale, senza separarsi dalla Chiesa; mostrarono che la Chiesa rimane il vero, autentico luogo del Vangelo e della Scrittura. Anzi, Domenico e Francesco trassero proprio dall’intima comunione con la Chiesa e con il Papato la forza della loro testimonianza.
Con una scelta del tutto originale nella storia della vita consacrata, i Membri di questi Ordini non solo rinunciavano al possesso di beni personali, come facevano i monaci sin dall’antichità, ma neppure volevano che fossero intestati alla comunità terreni e beni immobili.
Intendevano così testimoniare una vita estremamente sobria, per essere solidali con i poveri e confidare solo nella Provvidenza, vivere ogni giorno della Provvidenza, della fiducia di mettersi nelle mani di Dio.

Un "pieno sostegno"
Questo stile personale e comunitario degli Ordini Mendicanti, unito alla totale adesione all’insegnamento della Chiesa e alla sua autorità, fu molto apprezzato dai Pontefici dell’epoca, come Innocenzo III e Onorio III, i quali offrirono il loro pieno sostegno a queste nuove esperienze ecclesiali, riconoscendo in esse la voce dello Spirito.
E i frutti non mancarono: i gruppi pauperistici che si erano separati dalla Chiesa rientrarono nella comunione ecclesiale o, lentamente, si ridimensionarono fino a scomparire.
Anche oggi, pur vivendo in una società in cui spesso prevale l’“avere” sull’“essere”, si è molto sensibili agli esempi di povertà e di solidarietà, che i credenti offrono con scelte coraggiose. Anche oggi non mancano simili iniziative: i movimenti, che partono realmente dalla novità del Vangelo e lo vivono con radicalità nell’oggi, mettendosi nelle mani di Dio, per servire il prossimo.
Il mondo, come ricordava Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi, ascolta volentieri i maestri, quando sono anche testimoni. È questa una lezione da non dimenticare mai nell’opera di diffusione del Vangelo: vivere per primi ciò che si annuncia, essere specchio della carità divina.

Testimoni, ma anche maestri
Francescani e Domenicani furono testimoni, ma anche maestri.
Infatti, un’altra esigenza diffusa nella loro epoca era quella dell’istruzione religiosa. Non pochi fedeli laici, che abitavano nelle città in via di grande espansione, desideravano praticare una vita cristiana spiritualmente intensa. Cercavano dunque di approfondire la conoscenza della fede e di essere guidati nell’arduo, ma entusiasmante cammino della santità.
Gli Ordini Mendicanti seppero felicemente venire incontro anche a questa necessità: l'annuncio del Vangelo nella semplicità e nella sua profondità e grandezza era uno scopo, forse lo scopo principale di questo movimento.

La predicazione
Con grande zelo, infatti, si dedicarono alla predicazione. Erano molto numerosi i fedeli, spesso vere e proprie folle, che si radunavano per ascoltare i predicatori nelle chiese e nei luoghi all’aperto, pensiamo a sant'Antonio, per esempio. Venivano trattati argomenti vicini alla vita della gente, soprattutto la pratica delle virtù teologali e morali, con esempi concreti, facilmente comprensibili.
Inoltre, si insegnavano forme per nutrire la vita di preghiera e la pietà. Ad esempio, i Francescani diffusero molto la devozione verso l’umanità di Cristo, con l’impegno di imitare il Signore. Non sorprende allora che fossero numerosi i fedeli, donne ed uomini, che sceglievano di farsi accompagnare nel cammino cristiano da frati Francescani e Domenicani, direttori spirituali e confessori ricercati e apprezzati.

Terzo Ordine e santità laicale
Nacquero, così, associazioni di fedeli laici che si ispiravano alla spiritualità di san Francesco e di san Domenico, adattata al loro stato di vita. Si tratta del Terzo Ordine, sia francescano che domenicano.
In altri termini, la proposta di una “santità laicale” conquistò molte persone. Come ha ricordato il Concilio Ecumenico Vaticano II, la chiamata alla santità non è riservata ad alcuni, ma è universale (cfr Lumen gentium, 40).
In tutti gli stati di vita, secondo le esigenze di ciascuno di essi, si trova la possibilità di vivere il Vangelo. Anche oggi ogni cristiano deve tendere alla “misura alta della vita cristiana”, a qualunque stato di vita appartenga!