29.1.10

IV Domenica tempo ordinario - ANNO C

Domenica 31 Gennaio 2010


Ger 1,4-5.17-19 Ti ho stabilito profeta delle nazioni
Dal Salmo 70 Rit. La mia bocca, Signore, racconterà la tua salvezza
1 Cor 12,31-13,13 Rimangono la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di tutte è la carità
Lc 4,21-30 Gesù come Elia ed Eliseo è mandato non per i soli Giudei


1. Un'accoglienza trionfale
Il brano evangelico prosegue il racconto, iniziato domenica scorsa, di Gesù nella sinagoga di Nazareth.
Si è colpiti dalla particolarità della descrizione di Luca, specie se confrontata con le versioni parallele di Matteo e Marco.
La reazione dei nazareni al discorso di Gesù sembrerebbe, infatti, molto positiva.
Già ci era stato detto che gli occhi di tutti erano fissi su di lui (vs. 20); si rileva, poi, come

Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?».
Anche quest'ultima domanda, che nei sinottici rappresenta il culmine dello scetticismo dei compatrioti, qui pare piuttosto essere formulata con stupita meraviglia.
A fronte di questa accoglienza, non certo oppositiva, Gesù assume un ruolo abbastanza "antipatico"; sembra quasi far di tutto per indurre, lui stesso, il rifiuto dei nazareni.
Diviene allora centrale cercare di comprendere le motivazioni di tale atteggiamento.


2. "Medico, cura te stesso!"
Non deve stupire anzitutto che, a fronte di parole che paiono indicare un determinato atteggiamento, il Vangelo ricolleghi un'interpretazione opposta.
Già Luca, nei primi capitoli, ci mostra come la risposta di Zaccaria e di Maria all'angelo Gabriele, sostanziate in parole pressoché identiche, nasconda atteggiamenti esattamente contrari: chiusura diffidente per il Sacerdote, generosità fiduciosa per la Madre del Signore.
Dio guarda al cuore dell'uomo, non all'atteggiamento esteriore; Gesù, poi, è colui che conosce il cuore di ciascuno, il che lo porta a non confidare troppo nelle dichiarazioni "facili" di fede in lui (cfr. Gv. 2,24-25).
A fronte degli entusiasmi dei compaesani, il Signore ne disvela la ragione profonda, manifesta apertamente ciò che di errato, per non dire di frainteso, v'è in tale superficiale euforia. 
Cosa attribuisce Gesù ai suoi ascoltatori?
«Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”».
L'esempio merita attenzione. Se il medico svolge una professione importante, salvando le vite altrui, quanto più deve prestare attenzione e dare il meglio di sè, dando fondo a tutte le sue conoscenze, quando si tratta di se stesso.
Il concetto, applicato a Gesù, potrebbe suonare in questo modo: "Se hai fatto tanti segni e prodigi per gli altri, quanti più ne dovrai fare adesso per noi, che siamo i tuoi.
L'essere tuoi compatrioti, tuoi parenti, l'averti visto nascere e crescere ci dà diritto ad attenderci da te cose ben più grandi che agli altri".
L'entusiasmo orgoglioso, quasi di bandiera, di un'appartenenza ideologica a Gesù, porta, al tempo stesso, ad attendersi da lui un trattamento privilegiato, una sorta di manipolazione o di diritto su Dio a vedere soddisfatte le proprie istanze.
Alla fine è tentare Dio: quanto somiglia quel proverbio alla tremenda frase della Passione: "Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso?" (Mt. 27,42).


3. La presenza di Dio nel suo popolo
Non così è da intendere il senso della della presenza e del dono di Dio in mezzo al suo popolo, di cui il profeta è segno immediato.
Essere i "suoi" comporta anzitutto il contrario: obbedienza e conversione; non è l'occasione per un diritto in più, ma per un'obbedienza in più.
Per questo un profeta, in patria non è accetto: richiama costantemente questa realtà.
Non a caso la Liturgia ci presenta, attraverso la prima lettura, la figura del profeta Geremia e la drammatica, conflittuale missione presso il suo popolo.
La critica principale che Geremia fa a Israele, infatti, è il ritenere la protezione di Dio su Gerusalemme (la "shalom", la pace)  un qualcosa di automatico, di dovuto, di eterno, pur nelle nequizie e nei tradimenti peggiori.
Sono proprio i "falsi" profeti che
"... dicono a coloro che disprezzano la parola del Signore:
Voi avrete la pace!
e a quanti seguono la caparbietà del loro cuore
dicono: Non vi coglierà la sventura" (Ger. 23,17)
Tali profezie sono duramente contestate da Geremia, perché legittimano e confermano l'atteggiamento errato del popolo: l'esito inevitabile sarà l'esilio in Babilonia, con cui Dio, fallito ogni richiamo, veramente abbandonerà il popolo, nello scandalo più totale ... anche sul piano teologico.
Il vero profeta, al contrario, predica l'obbedienza al piano di Dio e non è uno strumento per usare Dio a proprio vantaggio: per questo il suo destino, "fin dal grembo materno", è di vivere in perenne contrasto.


4. Doni gratuiti
E i segni straordinari, in quest'ottica di obbedienza, dove si collocano?
Gli esempi che fa Gesù sono assai significativi, proprio in questa logica: il segno pare lasciato a coloro che conoscono poco Dio, si ritengono o sono ritenuti lontani da lui, come Naaman il Siro e la vedova di Zarepta.
In questo modo il segno mostra la sua vera natura di dono di Dio, perché è percepito come gratuito ed immeritato, e perciò è privo del rischio di pretesa.
Sotto tale luce, si comprende la violenta reazione dei nazareni, che capiscono come Gesù gli stia chiedendo di mutare radicalmente il loro rapporto con Dio.
Non più l'orgoglio che se ne appropria, ma l'umiltà che lo serve.
La prospettiva diviene qui vertiginosa, perché ci apre uno squarcio sul mistero del rifiuto di Israele, popolo eletto, e su alcune delle sue possibili motivazioni.


5. "Non cerca il proprio interesse"
Il culmine del discorso viene offerto dalla seconda lettura, l'inno di san Paolo alla carità.
Nella nostra ottica è importantissimo il collegamento con il testo di Domenica scorsa.
Paolo sta dimostrando alla comunità cristiana che i doni, che ciascuno ha, sono in realtà di Dio, attraverso l'unico Spirito.
Ognuno deve utilizzare il proprio, per l'appunto, come dono: non per sé, ma per il bene di tutti, senza essere invidioso di quelli altrui, né viceversa ritenendosi superiore ad altre membra, apparentemente "meno dignitose".
Il carisma più grande di tutti, anzi, è proprio la carità, che non avrà mai fine.
Ecco l'antitesi dell'atteggiamento di possesso di Dio: la sottomissione, che significa accettare sì i suoi doni, ma senza gonfiarsi, senza vantarsi, senza invidiare, sperando tutto da Lui e dalla sua giustizia; non facendo del dono occasione di privilegio, ma anzi sopportando volentieri e non tenendo conto del male ricevuto.
Quale migliore attualizzazione del Vangelo?


6. La profezia finirà
Anzi, la stessa profezia, ad un certo punto, finirà; finiranno anche i doni. Quando Dio sarà tutto in tutti, quando vedremo faccia a faccia, rimarrà solamente la carità.
La carità non è quindi solamente il modo per comprendere ed usare al meglio i doni di Dio, ma si può forse dire il contrario: sono i doni di Dio che ci spingono ad imparare la carità, l'obiettivo finale di tutta l'esistenza.
Ci doni Dio di accogliere con questa umiltà la sua presenza, i suoi doni e la sua Parola, come dice il versetto allelujatico che accompagnava questo Vangelo prima della modifica del Lezionario:
"Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli" (Mt. 11,25)

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